Sarah Hijazi, 30 anni, aveva sventolato la bandiera arcobaleno a un concerto. Arrestata, stuprata, torturata, era poi uscita di cella e volata in Canada, dove viveva da rifugiata. Fino all’ultimo messaggio: «Perdonatemi, non ce la faccio»
Una frase per i fratelli: «Ho tentato di trovare riscatto e non ci sono riuscita». Un’altra per gli amici: «L’esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere». L’ultima, nella mano una biro tremolante, riservata al mondo: «Sei stato crudelissimo. Ma io ti perdono». Incarcerata e torturata un anno intero, esiliata e disperata negli ultimi due, non l’ha salvata nemmeno la tranquilla casetta in Canada che le avevano dato come rifugio politico, dopo un’accesa campagna internazionale per la sua liberazione:
a 30 anni, nel corpo le cicatrici delle continue «ispezioni corporali» e degli stupri senza fine subìti dalla polizia egiziana,
nella memoria le ferite delle minacce e delle derisioni sopportate al Cairo, sul tavolo della cucina canadese un semplice biglietto d’addio, Sarah Hijazi l’ha fatta finita. «Il cielo è più dolce della Terra! — aveva avvertito in un post su Facebook — E io voglio il cielo, non la Terra!».
La storia del suo arresto
Sarah sognava un cielo pieno d’arcobaleni e nel settembre 2017 le era bastato sventolare una bandiera per i diritti Lgbt, a precipitarla nei sotterranei che ingoiarono Giulio Regeni, nell’inferno che sta vivendo Patrick Zaki.
Un attimo d’esultanza, sotto il palco d’un concerto al parco dell’università Al Hazar. Sarah aveva sentito le parole liberatorie di Hamed Sinno, il Freddie Mercury arabo, s’era dimenata sulla musica indie-trasgressiva dei Mashrou Leila, i Progetto Notte, la più omosex delle band libanesi: «Digli che siamo ancora in piedi!/ Digli che stiamo resistendo!/ Digli che abbiamo ancora gli occhi per vedere! Digli che non abbiamo fame!…». Imprudente, Sarah s’era messa in tasca l’arcobaleno dei diritti lesbo-gay-bisex-transgender. Poi l’aveva tirato fuori in pubblico, sotto il naso dei poliziotti cairoti. E con altri 77, era finita dentro.
«Pratica di depravazione»
Nell’Egitto del generale Al Sisi, come in quello dei Fratelli musulmani e prim’ancora di Mubarak, c’è sempre voluto molto meno d’un applauso sbagliato per rischiare fino a 17 anni di carcere. D’omosessualità, credendo d’infangarli, tentarono di parlare dopo la morte di Regeni e dopo l’arresto di Zaki. Perché una legge del 1961 e l’Islam e tutta la società egiziana la puniscono come «pratica d’abituale depravazione», anche se è pratica antica e diffusa: chiunque sa delle periodiche retate sotto il ponte Qasr, sul Lungonilo; ognuno ricorda il famoso «processo ai 52» che svelò al mondo le persecuzioni sessuali; tutti hanno visto i proibiti film egiziani sull’identità di genere. «Shim el-Yesmine», annusa il gelsomino, è la canzone più popolare dei Mashrou Leila e insieme l’inno dei gay arabi. Era pure il titolo più amato da Sarah. In queste ore — mentre il governo italiano è assediato dalle polemiche sulle navi militari vendute ad Al Sisi nonostante il caso Regeni, mentre Bologna discute se dare la cittadinanza onoraria a Zaki, ormai in galera da quattro mesi —, sul Crescentone di piazza Maggiore hanno srotolato di nuovo un grande manifesto dieci per quindici. Proprio là, dove un cartellone pubblicitario aveva sloggiato quello vecchio. I bolognesi hanno memoria ostinata. Ci sono ancora le foto di Giulio e di Patrick. Manca solo quella di Sarah.
(Corriere della Sera)