Ritardi ci sono stati. Anzi, ci sono ancora. E i numeri oscuri sono la prova di una grave mancanza di trasparenza.
È vero che la cassa integrazione, strumento pensato per il tempo di pace, ha tenuto in piedi un Paese piombato in tempo di guerra. È vero anche che il numero delle pratiche da gestire non ha precedenti e che il lavoro da remoto ha complicato le cose. Eppure.
Ieri l’Inps e il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo hanno detto che le il 96% dei versamenti è stato fatto e restano da pagare solo 123.542 persone. Ma c’è un documento interno dell’Inps, diffuso dal senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, secondo cui mettendo insieme cassa ordinaria, in deroga e fondo d’integrazione salariale, le persone che restano da pagare sono quasi dieci volte tanto: un milione e 200 mila. La verità sta nel mezzo.
Il documento che parla di oltre un milione di persone in attesa
fa la differenza tra le persone che avevano prenotato la cassa e quelle che l’hanno effettivamente incassata. Senza contare che nel frattempo alcune persone potrebbero non aver confermato la richiesta oppure essersi vista rifiutata la richiesta. Ma anche pulire i dati in questo modo non consente di scendere a solo 123 mila persone in attesa. Il dato Inps e Catalfo, invece, si limita a alle domande ricevute entro la fine di maggio. Due mezze verità. Ma, al di là dei numeri, si poteva fare diversamente?
«I problemi erano prevedibili ma nell’immediato il governo ha fatto la scelta giusta», d
ice Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro alla Bocconi. Anche perché la cassa, a differenza dei bonus per gli autonomi, è l’ammortizzatore sociale che protegge di più il lavoratore dalle buche dell’economia di mercato, tutelando la pensione e gli assegni familiari.
A complicare le cose è arrivata la decisione di coinvolgere di nuovo le regioni nella cassa in deroga. Con l’aggravante che un tempo le regioni contribuivano con fondi propri mentre oggi non riescono a mettere un euro. Non solo. Per salvare l’Inps dalle accuse di questi giorni, nell’ultimo decreto legge si dice che le aziende che presenteranno la documentazione in ritardo, la cassa se la dovranno pagare da sole. Un deterrente per i ritardatari. Un modo per capire in tempo reale quante risorse si stanno bruciando. Ma anche una forzatura, visto che al netto dell’emergenza di queste settimane, la cassa integrazione è pagata dai contributi di aziende e lavoratori.
Il vero problema però è davanti a noi. La cassa integrazione è legata al blocco dei licenziamenti che scade il 17 agosto.
Il messaggio del governo agli imprenditori era logico: voi non mandate nessuno a casa, i soldi ai lavoratori li diamo noi, e intanto aspettiamo che passi la nottata. Il guaio è che dopo 100 giorni la nottata è ancora con noi. Anche prendendo i 20 miliardi del piano europeo Sure, la cassa non può essere prolungata all’infinito visto che costa 6 miliardi al mese. E comunque prorogare a lungo tutti e due gli strumenti rischierebbe di ingessare un sistema produttivo già sulle gambe.
Ma lo sblocco dei licenziamenti è un pericolo in sé: «Il rischio — dice il professor Del Conte — è quello di creare un grande firing day, un giorno del licenziamento in cui tante aziende in difficoltà sceglierebbero di tagliare i costi». Sarebbe la Fase due. Ma della catastrofe.
(Corriere della Sera)