L’Associazione L’agone Nuovo si batte da sempre (con la collaborazione delle scuole ed esperti), contro il bullismo e il cyberbullismo;
Di questo, ne parliamo con il Dott. Gianluca Di Pietrantonio, Psicologo della Devianza e dell’Analisi Criminale, specializzato in sessuologia clinica e Criminologia Investigativa; è ricercatore nel campo delle aree disfunzionali del comportamento. Lavora a ridosso dei fenomeni di abuso e sopraffazione di genere da oltre 20 anni come investigatore della Polizia di Stato; per 10 anni ha fatto parte del pool istituito per il contrasto ai reati di genere presso la Procura di Roma.
Nell’attuale momento storico, quanto è importante parlare di bullismo e cyberbullismo?
Parlare di bullismo in un periodo in cui la società civile globale ha dovuto far fronte a un problema di dimensioni storiche come quello della pandemia potrebbe apparire anacronistico, non fosse che resta un problema nel problema che riguarda i nostri ragazzi e, di conseguenza, minandone la personalità, potrebbe incidere anch’esso nelle sorti future di questo Paese.
Ovviamente lo stravolgimento imposto dal Covid ha distolto l’attenzione portando a non avere dati sulle emergenze del fenomeno durante il lock down; ma non poter fornire numeri non impedisce di segnalare percezioni che non sono sfuggite all’osservazione di chi, come il sottoscritto, analizza attraverso una serie di canali acquisitivi privilegiati, il comportamento degli adolescenti.
I ragazzi sono stati costretti a casa e hanno accumulato inevitabilmente frustrazione di conseguenza alle restrizioni che comprensibilmente confliggono con quel periodo della vita in cui gli aspetti relazionali sono importantissimi.
Ne potrebbe conseguire che durante la progressiva ripresa delle relazioni all’esterno del nucleo familiare, alcuni soggetti (ad es. quelli inseriti in contesti familiari precari o con problematiche della fase evolutiva preesistenti o inseriti in contesti sociali a rischio) scarichino quella frustrazione sui pari con comportamenti e atteggiamenti prevaricatori e violenti, esacerbati dal periodo restrittivo.
Da qui le ragioni per ritenere necessaria un’inserzione di attenzione sul fenomeno tra la giusta rilevanza di criticità maggiori quali quelle della salute pubblica e dell’economia post pandemica.
Perché secondo lei, se ne parla molto di più oggi rispetto a ieri?
Le ragioni che portano oggi ad innalzare l’attenzione, soprattutto sul cyberbullismo, hanno una logica radicata nelle circostanze imposte dall’isolamento domiciliare. Per chiunque, e quindi anche per i nostri bambini e adolescenti (mi sia perdonato il ridondare che sono queste le fasce di età interessate dal fenomeno) l’unica possibilità di interazione sociale durante tutto il lock down è stata affidata esclusivamente agli strumenti tecnologici e alla rete, con le diverse piattaforme social; la scuola si è fatta in rete, la spesa si è fatta in rete, e in rete si sono tessuti i legami parentali ed amicali. Ecco, dunque, che una parte della frustrazione di cui si è fatto cenno, ha trovato sfogo proprio in rete, dove si è registrato un incremento di comportamenti virtuali prepotenti che spaziano dalle aggressioni verbali, alla molestia, all’isolamento social e alle violazioni del diritto di immagine. Il problema, dunque, è tutt’altro che superato e resta di una drammatica, inquietante attualità tanto da imporre la necessaria considerazione e l’impiego di adeguate misure di contrasto.
C’è un’effettiva sensibilizzazione da parte degli organi preposti?
Fino alla valanga virale, diversi ministeri, e a seguire istituzioni e associazioni, in linea con il disposto normativo 71/2017, hanno attuato politiche informative molto pertinenti, indicando riferimenti e proponendo progetti tanto validi quanto necessari; purtroppo il Covid ha comprensibilmente mutilato l’interesse istituzionale intorno alla problematica che ci occupa, ma non per questo svilendone la necessarietà. L’associazione Lagone, da sempre sensibile e impegnata in progetti di informazione e prevenzione al fenomeno, soprattutto negli istituti scolastici, sta dimostrando di tenere in considerazione l’argomento nonostante la portata dell’attuale momento storico. In forza delle possibili mutazioni dei tempi e delle modalità della scuola, probabilmente dovranno essere ripensate le esecutività progettuali plasmando le offerte alle nuove esigenze, mantenendo però incorrotta l’attenzione sulla tematica.
Gli adolescenti non hanno molta voglia di condividere la loro sfera personale con i genitori: cosa possono fare questi ultimi per avvicinarsi ai propri figli e stare tranquilli?
Non credo che la tranquillità rientri tra i privilegi di un genitore; e questo è tanto valido oggi quanto 100 anni fa, sebbene la trasformazione della società e della famiglia sia stata radicale soprattutto nell’ultimo ventennio; esistono, comunque, doveri, poteri e strategie comunicative che possono essere adottate da mamme e papà del XXI secolo. A favorire i genitori di oggi, in linea puramente teorica, dovrebbe concorrere lo sdoganamento di diversi tabù, un dialogo sempre più libero, l’abbreviamento delle distanze autoritarie genitori/figli oltre ai mezzi tecnologici che possono garantire con semplicità una continuità di comunicazione. Invece, paradossalmente, con percentuali in crescita, ciò che manca è proprio il dialogo tra genitori e figli, che crescono ai margini di realtà familiari sempre più frammentate, distratte e troppo impegnate in altro, come se l’educazione e la crescita dei figli non rientrasse tra le priorità domestiche, perlomeno quelle affettive. La gran parte dei comportanti distorti dei ragazzi sono proprio l’inconsapevole tentativo con cui questi tentano di richiamare l’attenzione di mamma e papà, un SOS lanciato sotto le mentite spoglie dell’irriverenza, dell’intemperanza, della sfida in una ricerca disperata di autonomia con cui convincersi e convincere di essere grandi.
Di conseguenza è pressochè normale, al prezzo della mancanza di ascolto o, peggio, del giudizio, che i ragazzi traccino dei confini invalicabili intorno al loro privato; quello che ogni genitore deve ricordare è che in quel privato di adolescenti è concentrato un magma di contraddizioni in divenire in cui brilla la scintilla di un’identità in sospeso tra il già e il non ancora. In questa età del doppio appare fondamentale individuare dei canali comunicativi per offrire ai giovani il marginale ma solido sostegno di cui hanno bisogno.
Rimanendo sul tema “genitori” rispetto a molti anni fa, di allarmismo ce n’era poco o quasi per nulla. Come spiega questa evoluzione?
L’evoluzione sociale dell’ultimo cinquantennio ha stravolto non soltanto i mezzi ma anche il fine dell’uomo; le innovazioni tecnologiche, la ricerca medico/scientifica, l’informatica e lo sviluppo della rete hanno aumentato le aspettative di vita ma anche i ritmi; mezzi di trasporto e infrastrutture hanno dinamizzato la mobilità e l’interculturalità, abbattendo frontiere fisiche e mentali. Inevitabilmente sono cambiate l’etica e la morale, sono stati stravolti gli stili educativi dei nostri nonni che non hanno retto il passo del progresso. Lontano da qualsiasi pretenziosa analisi sociologica che sarebbe sciatta nella riduzione a poche righe, la breve premessa sorregge il postulato che i genitori degli anni 50/60 non portavano con sé il bagaglio di preoccupazioni delle mamme e papà moderni.
Soprattutto l’uso della rete ha drammaticamente espanso le aree di rischio dei nostri figli, eliminando i limiti e amplificando le potenzialità di individui con processi di sviluppo della personalità in fase di formazione e con gradazioni di maturità diversi.
Non deve stupire, pertanto, che la preoccupazione, patrimonio di ogni genitore nella storia del mondo, si stia trasformando in allarme; la preoccupazione ha dei confini ben precisi in cui fermentare e può corrergli in soccorso l’intuito, la conoscenza, la previsione e la prudenza.
Ma quando quei limiti non esistono più, l’imprevisto e imprevedibile diventa l’unica mappa di navigazione di mamma e papà e la preoccupazione muta geneticamente in angoscia fino a sfiorare le gradazioni superiori del timore, della paura e del panico.
Il connotato che preoccupa, a mio avviso, è l’incoscienza (intesa come non conoscenza) che consente di rimanere nella scala della tranquillità con una buona probabilità di incorrere in un terrificante risveglio.
Parlando dei bulli. Un’educazione trascurata può comportare atteggiamenti violenti, o è una diceria?
In questa domanda ci sono due parole da analizzare: ‘educazione’ e ‘trascurata’.Educare deriva dal latino ex-ducere che significa condurre fuori, ovvero far venire fuori. Educare qualcuno vuol dire, perciò, far venire fuori da lui
ciò che è’ dentro di lui. In altri termini, vuol dire aiutare qualcuno ad esprimere se stesso, ad essere quello che è, a comportarsi in modo conforme alla sua personalità. Posto che si voglia accettare l’etimo di una parola
ed il senso che ne consegue. In pratica l’educazione sarebbe esattamente il contrario di ciò che comunemente si intende con questa parola, sarebbe un far uscire e non un mettere dentro, sarebbe un rafforzare la personalità
dell’educando e non un formarla (forgiarla addirittura, come qualche stile istruttivo sostiene), sarebbe un rispettarne l’originalità e non il costringerla in un modello.
Tutto questo per asserire senza timore di smentita che educare è un lavoro oneroso che passa attraverso l’ascolto, la comprensione, la considerazione, l’alleanza, l’alternanza sapiente di autorità e autorevolezza, di flessibilità e fermezza. La trascuratezza, in questo caso connessa all’educazione, è l’omissione di determinate forme di attenzione, ritenute come doverose, per lo più in ordine a criteri di precisione, convenienza morale e sociale e decoro esteriore.
Nell’età evolutiva, in cui la percezione di sostegno è fondamentale, si determinano i tracciati della personalità dell’individuo che sarà via via palesata con il comportamento.
Quindi, come ho sostenuto più volte, la letteratura e l’esperienza insegnano che determinati comportamenti inquadrabili nel bullismo (e nel cyberbullismo che ne è la versione tecnologica) siano la conseguenza di un disagio e i disagi maturano nelle mancanze.
Il ricorso alla violenza, agita o verbale, individuale o di gruppo, è la valvola di sfogo di un malessere inascoltato, incompreso, anzi spesso provocato; è il grido di dolore con cui si chiede aiuto, con cui si dice al mondo “esisto anch’io”. Questa è la ragione per cui non servono le punizioni (o almeno non servono da sole) ma serve l’ascolto, l’attenzione, l’accoglimento; forse più semplicemente, l’amore.
Erica Trucchia
BANDO EDITORIA REGIONE LAZIO