Il caso del ricercatore dell’università di Bologna Patrick Zaki, ancora in custodia cautelare in carcere in Egitto, aveva riacceso la luce sull’asfissiante clima di repressione che regna nel paese.
A più di quattro anni dal terribile omicidio di Giulio Regeni il regime di Al-Sisi continua imperterrito nella sua torsione autoritaria, che ha trovato un ottimo alleato nel clima di paura scatenato a livello mondiale dalla pandemia Covid-19
Dall’entrata in vigore delle prime misure restrittive per frenare l’avanzata del virus, il 25 marzo (durate fino al 24 giugno), il governo del generale più che concentrarsi sul potenziamento del sistema sanitario nazionale, che ha subito un fortissimo stress lasciando senza le dovute attrezzature e protezioni individuali centinaia di medici, ha usato la pandemia per alimentare ancor di più il clima di terrore e lo stato di emergenza permanente nel paese dalla sua salita al potere nel 2013.
L’interesse principale del regime negli scorsi mesi è stato quello di silenziare chiunque provasse ad avanzare osservazioni e critiche sulla gestione della pandemia, tacciato di essere un nemico della patria e di attentare alla stabilità e alla sicurezza nazionale.
La lotta del governo più che contro la Covid-19 si è concentrata sul reprimere chiunque non si attenesse alle veline ufficiali sui dati relativi alla diffusione del virus. In tal senso risulta emblematica la storia del giornalista Mohamed Mounir, membro del sindacato dei giornalisti egiziani e fondatore del Fronte in difesa dei giornalisti e della libertà, morto di coronavirus pochi giorni dopo essere uscito di prigione in seguito all’arresto da parte di poliziotti in borghese al Cairo con l’accusa di diffondere false notizie sulla gestione della pandemia da parte del governo e di essere un sostenitore della Fratellanza musulmana (messa al bando come organizzazione terrorista da Al-Sisi). La sua colpa: quella di aver rilasciato un’intervista ad Al-Jazeera, da tempo censurata in Egitto in quanto emittente di uno dei paesi nemici, il Qatar, e considerata sostenitrice dei Fratelli Musulmani.
Il caso emblematico di Mounir si inserisce in una lunga lista di giornalisti arrestati durante i mesi più difficili della pandemia. Alla fine di giugno, quando il paese si apprestava alla graduale riapertura dopo le restrizioni, si contavano nove giornalisti arrestati, più il corrispondente del “Guardian” rimpatriato. Tutti accusati di diffondere false notizie sulla propagazione del virus in Egitto e di attentare alla sicurezza e alla stabilità dello stato. Una realtà che si è inasprita con la Covid ma che si inserisce in un contesto in cui, come segnala Reporters Without Borsers, dal 2018, la legge egiziana consente alle autorità, in particolare al Consiglio Supremo per la regolamentazione dei Media (Scmr), di censurare i media online, i siti web e gli account personali sui social network con oltre 5.000 follower. Finora più di 500 siti web, incluso quello di Rsf, sono stati bloccati per «diffusione di informazioni false». Per tali motivi, ma non solo, l’Egitto è classificato al 163° posto su 180 paesi nel World Press Freedom Index 2019 di Rsf.
La repressione del regime, però, non ha silenziato solo la stampa e i media ma chiunque provasse a far emergere le difficoltà della gestione dell’emergenza sanitaria, primi tra tutti i medici che hanno dovuto affrontare una situazione catastrofica, soprattutto negli ospedali pubblici decisamente carenti da un punto di vista strutturale.
Le direzioni ospedaliere, coadiuvate dagli apparati di sicurezza, hanno instaurato un clima di terrore tra gli operatori sanitari, minacciando pesantemente chiunque avesse intenzione di far uscire allo scoperto le enormi falle del sistema sanitario, tra cui la mancanza dei Dpi per il personale impegnato nella lotta alla Covid-19 che ha messo a serio rischio la vita delle lavoratrici e dei lavoratori all’interno degli ospedali. Si contano a oggi centinaia di medici e personale sanitario morti a causa del Covid che hanno contratto sul luogo di lavoro.
Per comprendere la gravità della situazione basti pensare che il tesoriere del sindacato dei medici egiziani, Mohamed Moataz al-Fawal è stato arrestato solo per aver pubblicato un post su Facebook critico nei confronti delle dichiarazioni del ministro della sanità. Anche la sottosegretaria del sindacato dei medici Mona Mina è stata fermata e posta sotto interrogatorio all’ufficio della Procura d’Appello del Cairo nella sede del Procuratore generale di Rehab, per le sue dichiarazioni ai media riguardanti le condizioni precarie in cui versano i nosocomi pubblici egiziani.
La morsa repressiva è funzionale a mantenere il controllo di un contesto sociale che, complici i contraccolpi economici della pandemia, potrebbe diventare incandescente. Già nel 2016 l’Egitto per far fronte alle difficoltà economiche ha chiesto un prestito al Fmi ed ha iniziato ad attuare i famosi piani di aggiustamento strutturale.
Per tentare di scongiurare l’acuirsi della crisi economica e sociale Al-Sisi ha fatto ampio uso della creazione di mega progetti infrastrutturali.
Il governo ha puntato decisamente sul settore edilizio sia per creare lavoro, sia per alimentare la militarizzazione dell’economia, visto che la maggior parte delle aziende che hanno partecipato al boom edilizio sono di proprietà dell’esercito. Il generale ha attuato rigorosamente le direttive del Fmi in materia di austerity, tanto da guadagnarsi l’apprezzamento del Fondo, che ha rinnovato la fiducia al regime emettendo un altro prestito.
Tale apprezzamento a livello internazionale è basato su due fattori: l’imposizione di un modello duro di misure di austerità che, tra l’altro, hanno una lunga tradizione risalente ai presidenti che lo hanno preceduto, e l’interruzione degli importanti sussidi per carburante, cibo e altri beni di base che garantiscono la sopravvivenza della maggior parte degli egiziani.
Misure che hanno avuto importanti ripercussioni a livello sociale, con la notevole perdita di potere di acquisto per una larga fetta di popolazione che ha difficoltà nel reperire finanche i beni di prima necessità. Ricalcando lo schema usato da Mubarak, la politica economica di al-Sisi si basa sull’attrazione di investimenti esteri, su uno spiccato dirigismo tramite la costruzione di mega-opere infrastrutturali e sul sostegno a una ristretta cerchia di grandi imprenditori locali, che hanno stretti legami con l’esercito, il cui ruolo nell’economia nazionale risulta sempre più centrale.
L’emergenza sanitaria si è innescata in questo contesto di per sé già critico e ha conseguentemente alimentato le enormi disuguaglianze sociali.
Le misure di contenimento della pandemia hanno colpito soprattutto il settore del commercio al dettaglio e del turismo, facendo perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro. Senza dimenticare l’importante percentuale di lavoratori precari con impieghi a nero ed alla giornata che hanno visto completamente azzerarsi qualsiasi possibile entrata per sopravvivere, in una società che non garantisce ammortizzatori sociali e sussidi sufficienti. Circostanza che ha portato molte persone ad andare incontro alle sanzioni previste per chi contravveniva il lockdown, decisamente salate se pensiamo che prevedevano il pagamento di fino a 4000 pound egiziani (circa 200 euro) di multa – basti pensare che il salario minimo mensile si aggira intorno ai 2300 sound mensili. Nonostante le difficoltà da un punto di vista sociale, al momento il pugno duro e la gestione autoritaria di Al-Sisi sembrano tenere e risulta difficile prevedere scenari di instabilità, almeno a breve termine.
D’altronde la stabilità del regime è garantita dall’ampio appoggio delle potenze occidentali, Stati Uniti e Francia su tutte, e dall’asse creato con attori regionali quali gli Emirati Arabi.
L’importanza del ruolo dell’Egitto nell’area mediterranea, soprattutto nello scacchiere libico e nei rapporti con Israele, così come nella spartizione delle risorse energetiche a est del Mare Nostrum, è un fattore cruciale che garantisce al generale una sostanziale incolumità e l’apprezzamento da parte di importanti partner occidentali e regionali, i quali chiudono ben volentieri un occhio sull’asfissiante clima di repressione nel paese in nome di interessi politici ed economici. D’altra parte anche il nostro paese, che avrebbe tutte le ragioni per non intrattenere rapporti con l’Egitto, dopo il brutale omicidio di Giulio Regeni, continua ad avere legami stabili per salvaguardare i progetti di colossi nazionali quali Eni nel paese e per il remunerativo mercato delle armi che vede nel regime di al-Sisi uno dei migliori clienti, come conferma la recente commessa di ben 10 miliardi per navi e aerei militari.
(Dinamopress)