25 Novembre, 2024
spot_imgspot_img

America2020: vent’anni dopo, la Storia torna alla Corte Suprema

Come nel 2000, si sta allungando l’ombra della Corte Suprema. Da Al Gore-Bush jr. a Biden-Trump, rieccolo, vent’anni dopo, il conflitto politico che arriva in tribunale, la volontà popolare e la carta bollata

L’America rossa e l’America blu. La notte della vittoria che c’era e non c’è. La notte della festa che c’era e non c’è. Il giorno della battaglia legale sul voto degli Stati Uniti d’America. Come nel 2000, si sta allungando l’ombra della Corte Suprema. Da Al Gore-Bush jr. a Biden-Trump, rieccolo, vent’anni dopo, il conflitto politico che arriva in tribunale, la volontà popolare e la carta bollata, la scheda nell’urna e le arringhe degli avvocati, fino alla sentenza dei giudici.

Deciderà (forse) una Corte a maggioranza conservatrice. Dopo la nomina di Amy Coney Barrett nel collegio c’è uno schiacciante 6 a 3 per i giudici conservatori e ora si coglie in pieno l’importanza della scelta fatta da Trump. “Vogliono rubarci le elezioni. Ricorreremo alla Corte Suprema”, dice il presidente attraversando come una lama la notte gelida di Washington.

Donald Trump con Amy Coney Barrett

Che cosa è successo? I tre Stati della Rust Belt – Michigan, Pennsylvania e Wisconsin – hanno deciso di non decidere subito, puntini di sospensione sul voto, si conta tutto con calma. E così hanno rovinato la festa a The Donald. Tutto alla fine si gioca in Pennsylvania dove la corsa di Trump per ora si è fermata a quota 55,8% contro il 43% di Joe Biden. Un margine di quasi 13 punti dice che la cosa è fatta. Il governatore democratico, Tom Wolf, repinge le accuse di Trump, dice che  “è un attacco di parte alle elezioni in Pennsylvania, ai nostri voti e alla democrazia. Le nostre contee stanno lavorando instancabilmente per elaborare i voti nel modo più rapido e preciso possibile. La Pennsylvania avrà un’elezione equa e noi conteremo ogni voto”.

Si materializza il “presagio” di Trump, quello per cui in estate aveva fatto fuoco e fiamme, l’impatto del voto per corrispondenza nell’elezione, l’ultima arma dei dem non per il prima, non per il durante, ma per il dopo. Dopo voto. Dopo Trump. Dopo Biden. Dopo tutto. Così si va dritti alla Corte Suprema. Mancano ancora un paio di caselle al completamento del sudoku elettorale di Trump.

Un ritratto di Amy Coney Barrett davanti alla Corte Suprema

Imprevisti, sorprese, deviazioni. L’Arizona è “flipped”, è passata dai repubblicani ai democratici. Non era previsto. E anche questo gli ha guastato la serata. In realtà Trump stava dando il colpo d’acceleratore sulla victory road, quando è arrivato lo stop dei tre Stati dei Grandi Laghi. La Florida è trumpiana, come tutta la pancia dell’America. I grandi elettori di Biden sono a quota 238, quelli di Trump a 213, secondo gli schemi del Wall Street Journal, allo stato della corsa, il presidente Trump ha 9 strade per conquistare 57 voti elettorali, Biden ne ha 18 per vincerne 32. Ah, i misteri del sudoku delle elezioni americane.

Chi è messo meglio? Bella domanda, siamo nel campo dei misteri del voto popolare e soprattutto del collegio elettorale. Cosa c’è nelle schede del voto per posta? Sono più i democratici o i conservatori? E la prima onda è blu o rossa? E chi e cosa governa a questo punto le scelte dei due candidati? Quale sarà la loro strategia in questo frangente della lotta? Sono già nella fase del post-voto, in un limbo giuridico e in una battaglia legale che per uno dei due sarà letale.

Decidere sulle elezioni. La prima potenza del mondo il giorno dopo il voto non ha il presidente eletto, forse non lo avrà per un bel po’ di tempo, nel 2000 il vincitore arrivò con una storica sentenza del 12 dicembre. Ci risiamo, con un gioco di date, il nuovo millennio, vent’anni dopo, la storia ama ripetersi in nuove forme e sembianze, fa calembour e spariglia il calendario.

 

Al Gore e George W. Bush

Per la Casa Bianca c’è tempo, ora si sfoderano i codici, si preparano i ricorsi, America 2020 sarà un nuovo racconto, un altro thriller. E si capisce come, in fondo, paradossalmente avesse ragione proprio lui, Trump, quando affermava che gli Stati Uniti hanno il diritto di sapere chi è il loro presidente subito, non in differita. Situazione surreale: chiunque vinca, ci sarà un ricorso.

Lui, Trump, parla nella notte dopo le dichiarazioni di Joe Biden e Nancy Pelosi (il primo dice “vinceremo” e la seconda afferma che “vanno contati tutti i voti”). I democratici mettono il sigillo blu della loro battaglia in due tempi, così The Donald avvia la sua seconda fase del conflitto in rosso.

Tutto pre-visto. Il presidente annuncia via Twitter una sua dichiarazione, preludio del (semi) finale della serata di Washington. Trump si presenta davanti alle telecamere con la famiglia e tutto il suo staff, sorrisi affiatati e affilati. Perché una vittoria in fondo c’è già, la serata ha consegnato a loro, ai Trumps il partito repubblicano, neppure una sconfitta a tavolino leverà al clan quello che s’è visto durante la campagna elettorale: il movimento. Quattro anni fa non c’era, oggi c’è e si è visto nell’urna.

I sondaggi davano per morto e finito Trump, dopo ieri sera sono morti i sondaggisti. Trump non si è mangiato il Partito repubblicano (che già non c’era, squagliato dalla vittoria di Obama nel 2008) lo ha trasformato in una “cosa” trumpiana che cattura voti. Note di colore, l’essenza che si rivela nel dettaglio. Un muro di bandiere alle sue spalle, The Donald indossa la cravatta azzurra delle occasioni solenni, la giacca blu che gli sta sempre un po’ appesa, lo sguardo da aquila e gli artigli sfoderati, un sorriso che non nasconde il suo fastidio interiore lo fa solo più smagliante e sulfureo, è un martello pronto a battere qualsiasi cosa gli passi sotto gli occhi. Al suo fianco c’è Melania, il vicepresidente Mike Pence e la moglie, il clima è quello della celebrazione della vittoria sospesa da un imprevisto, un grido di gioia spezzato. “Faremo ricorso alla Corte Suprema”. Gong, per chi suona la campana?

(Agi)

Ultimi articoli