Escono due volumi di Karl Polanyi, economista e pensatore mitteleuropeo che ha sempre difeso il primato dei legami sociali sulla macchina del capitale. La crisi attuale lo riporta in auge
«Non appena le attività quotidiane dell’uomo si sono organizzate attraverso mercati di vari tipi, basati sui moventi del profitto, determinati da atteggiamenti competitivi, e governati da una scala di valori utilitaristici, la società diviene un organismo che è, sotto tutti gli aspetti essenziali, sottoposto a fini di guadagno. Avendo così assolutizzato il movente del guadagno economico nella pratica, l’uomo perde la capacità di tornare a relativizzarlo mentalmente. La sua immaginazione è costretta entro vincoli che ne limitano le capacità». Scrive così lo storico dell’economia Karl Polanyi (1886–1964) nelle pagine iniziali di La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società antiche (pp. 374, euro 25), finalmente ripubblicato dall’editore Mimesis dopo decenni di assenza dalle librerie. Non bisogna farsi trarre in inganno dal titolo. Non si tratta di un ozioso viaggio fine a se stesso nel passato. È invece una ricostruzione del vivere insieme in società in cui il mercato ancora non regola in modo onnipervasivo le relazioni sociali. Allora, per usare il termine impiegato da Polanyi, il mercato era ancora incastrato nella società, e non il contrario, vale a dire la società incastrata nel mercato e sottoposta alle sue regole come accade nelle società di mercato, cioè le nostre. La svolta accade al tempo della Grande trasformazione, descritta nell’omonimo capolavoro preparato tra gli anni 1940 e il 1943. Con l’industrializzazione del XIX secolo si assiste all’imporsi di una mercificazione totale, in cui gli uomini si trovano separati dal loro ambiente naturale e dalla loro capacità di lavoro autonomo. «Il passo cruciale – scrive Polanyi in La sussistenza dell’uomo – fu costituito dalla trasformazione del lavoro e della terra in merci; ossia, essi furono trattati come se fossero stati prodotti per essere venduti. Naturalmente essi non erano propriamente merci, poiché non erano affatto prodotti (come la terra), oppure lo erano ma non a scopo di vendita (come il lavoro)». Per studiare questo capovolgimento Polanyi adotta un metodo di ricerca storica che spaesa gli specialisti di oggi. Egli attinge conoscenze dall’economia, dalla filosofia, dalla storia e dell’antropologia, abbracciando un arco temporale enorme, dall’antichità ai tempi a lui contemporanei.
Lo studioso dell’economia, nato a Vienna ma di origini ungheresi, è un maestro nelle ricerche a lungo termine,
come mette bene in luce Mirella Giannini, nel recente Karl Polanyi (pp. 86, euro 10) appena pubblicato da Jaca Book, che oltre a un’agile antologia di testi tratti dai lavori più rilevanti dello storico dell’economia offre una preziosa introduzione al suo pensiero seppure declinata in termini di decrescita. Dall’antologia di testi scelti dalla docente dell’Università Federico II di Napoli trova conferma quanto scrisse una volta un allievo di Polanyi, George Dalton. Egli riconosceva quanto sia impegnativo seguire il cammino di ricerca del suo maestro che passa dallo studio dell’Inghilterra ai tempi di David Ricardo all’indagine delle isole Trobriand di Bronislaw Malinowski per poi tuffarsi nella Germania di Hitler. Ma costa ancora di più seguire lo storico dell’economia di origine mitteleuropea lungo i sentieri che dalla Babilonia di Hammurabi lo conducono alla Grecia di Aristotele per poi inoltrarsi nel Dahomey del XVIII secolo. Non si tratta di sfoggio di erudizione ma dello sforzo realizzato per mettere in luce come il mercato non sia un “dato” naturale, ma un’istituzione e dunque un’“invenzione” che a partire dal XIX secolo diventa il principio regolatore dell’intera vita.
«La fondamentale dipendenza dell’uomo dalla natura e dai suoi simili per assicurarsi i mezzi necessari per la sua sopravvivenza – ammonisce Polanyi –, fu posta sotto il controllo di quella nuova creazione istituzionale estremamente potente, il mercato, che si sviluppo repentinamente da modeste origini.
Questo congegno istituzionale che divenne la forza dominante dell’economia dette poi origine ad un altro sviluppo, anche più radicale, e cioè ad un’intera società incorporata nel meccanismo della sua stessa economia: una società di mercato». Come riconosce bene Giannini «l’economia di mercato, attraverso il farsi istituzione autonoma si costituisce in principio che ordina la società e la trasforma nelle sue strutture relazionali. Questo principio che si fonda sul dis–incastramento istituzionalizzato, ma anche sulla sottomissione funzionale della società all’economia, si costituisce in narrazione del mercato come ordine naturale e razionale, e in una cultura economicista che finisce per avere una reale forza con conseguenti reali poteri nell’intera società». Non è però detta l’ultima parola perché la socialità per Karl Polanyi costituisce il propriuminestirpabile dell’uomo che gli lascia, anche nelle società di mercato, la possibilità di costruire un mondo nuovo in cui la regola non sia la scarsità ma la comunione dei beni e dove vita e lavoro siano di nuovo uniti al legame sociale e non alla logica del profitto.
(Avvenire)