20 Luglio, 2024
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Il populismo è ormai anche conflitto fra élite, nelle varie parti del mondo

Attorno al mastodonte abbattuto di Trump non c’è aria di festa. Il populismo può sopravvivere al suo fallimento storico

La statua di Trump è caduta con fragore sulla enorme piazza mediatica, dove noi tutti stiamo a guardare. La fissità vitrea del suo sguardo mostra intera l’impossibilità-incapacità di accettare la sconfitta. Ma attorno al mastodonte abbattuto, non c’è quell’aria di festa e di fiducia che respiravi mentre trent’anni fa venivano giù, dopo il Muro, i simulacri di Lenin. Anzi, di primo acchito sembra che il populismo si rimetta in piedi sulla scena della democrazia oltre la fine del populista, così come la sovranità s’impose quattro secoli fa in Inghilterra sulla testa mozzata del primo sovrano.

La rabbia, il sospetto, le accuse e le minacce che tracciano, dentro e fuori i confini dell’America, l’epilogo di questa egemonia sembrano un’energia tragica, capace di aprire nuove fratture nel declino dell’Occidente.

La denuncia di un complotto, con la quale il tycoon si congeda, ha una forza attrattiva senza pari: non mobilita solo la sua classe operaia del Midwest, accorsa alle urne nel tentativo, vano, di salvarlo, ma tutti i cospirazionisti del pianeta, quelli che vedono dietro alle istituzioni internazionali, come dietro ai virus e ai vaccini, l’ombra di una trama segreta.

È come se Trump fosse caduto dentro la voragine, ormai incolmabile, che si è aperta tra due mondi, la cui incomunicabilità è cosmica. Non abbiamo più un linguaggio capace di parlare “di” e “a” queste distanze siderali. Il paradigma di Brexit e dei Cinquestelle a Palazzo è già uno stereotipo desueto. La contrapposizione tra centro e periferie, tra chi possiede la conoscenza per affrontare le incognite del contemporaneo e chi ne è sguarnito non spiega che cosa sta accadendo attorno a questo storico passaggio. Perché la frattura culturale è più profonda e supera la stessa idea di una contrapposizione ideologica. Non a caso destra e sinistra hanno poco fascino tra le opinioni pubbliche. Quando pure vengono evocate – da Trump per dire in molti comizi che “quello di sinistra è un nuovo fascismo” e dai democratici per paragonare in un video virale il presidente disarcionato a Hitler – sembrano caricature senza realtà, in un tempo in cui anche la satira annega nell’odio.

Allo stesso modo il “Great Reset”, cioè l’idea di riplasmare la ripresa economica oltre il dramma del Covid, lanciata dal World Economic Forum, è censurata con accenti simili, tanto da un arcivescovo reazionario come Carlo Maria Viganò, quanto da un guru marxista come Diego Fusaro. Per l’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, grande nemico di Papa Bergoglio, la Bretton Woods globalista nasconde l’avvento di una “dittatura sanitaria, finalizzata all’imposizione di misure liberticide”. Per il giovane ideologo la stessa dittatura giustifica “lo sterminio del ceto medio” e “una svolta post democratica dell’expertise liberista”.

Il circo cospirazionista oggi non ha una cifra ideologica, ma ha una identità chiaramente rivoluzionaria. Assolda sedicenti intellettuali e saltimbanchi di tutte le estrazioni culturali, a fianco di cittadini comuni, e mostra che il populismo non è più e non è solo una rivolta degli esclusi, ma anzitutto un conflitto tra élite.

Lo ingaggia un’alleanza tra la massa dei semi-alfabetizzati dai social, che coltivano voglia di riscatto in nome del “perché non io”, e una classe dirigente che ha studiato e investito sulle competenze, senza però raccogliere quanto sperava. In questo trasversale album sociale stanno assieme i no-vax e i no-Covid, lo steward da stadio che sogna di fare il ministro, ma anche l’abile speculatore mai riconosciuto nel salotto buono della finanza o l’economista talentuoso ma eccentrico, rimasto fuori dai giochi. La frustrazione è il collante identitario di questa umanità diversa, a cui il populismo promette giustizia, in tempi in cui la libertà è gratis, ancorata com’è ai diritti e sciolta dai doveri, e perciò non più spendibile come offerta politica.

Questi movimenti di masse dentro le società contemporanee, come slittamenti di faglie in grado di produrre terremoti, sono messi a fuoco nel libro “Radical choc”, di Raffaele Alberto Ventura, da pochi giorni in libreria.

La sua tesi è che la corsa delle democrazie all’accumulazione del capitale simbolico, cioè del sapere, ha spinto verso l’alto le remunerazioni di una piccola parte di competenti, considerati i migliori, ha contratto una più ampia porzione dei salari, e ha generato una lunghissima panchina di aspiranti competenti, un’élite disgraziata, destinata a entrare in conflitto con la società. In questo senso il populismo sarebbe una reazione spontanea ai rendimenti decrescenti della classe competente, una sorta di distruzione creatrice, che segna diversi cicli di legittimità: Trump e il Movimento Cinquestelle sarebbero solo un’anticipazione di quello che ci aspetterà non appena la crisi di legittimazione delle élite, come probabilmente accadrà, dovesse acuirsi.

Nella provocazione apocalittica che il libro muove, il divorzio tra modernità e democrazia consegnerebbe l’Occidente al paradigma cinese. Potremmo diffidare, in nome di una visione liberale, di queste profezie deterministiche. O consolarci con la vittoria rassicurante di Biden. O ancora ribattere, con una battuta di un filosofo contemporaneo, Massimo Adinolfi, che è più facile vedere ciò che finisce rispetto a ciò che inizia. E se il Covid ha dato all’America la forza di ribaltare il dispotico presidente, sarà il vaccino a rattoppare le società occidentali. E magari, prima o poi, il rilancio delle culture politiche ci consentirà di governare i social network, a cui si deve la polarizzazione del dibattito pubblico e la radicalizzazione dei pregiudizi sociali. Così, da ultimo, sarà più facile riacchiappare quei pezzi di società che vanno appresso a strane fandonie.
Possiamo pensarlo. Ma il mastodonte di Trump sta ancora al centro di quella enorme piazza mediatica, su cui noi tutti stiamo a guardare. Ci ricorda che, come tutti i pensieri forti, il populismo può sopravvivere al suo fallimento storico.

(Huffpost)

 

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