Una ricerca pubblicata sulla rivista Nature dagli scienziati della Stanford University e della Northwestern University ha tracciato i movimenti di 98 milioni di persone negli Usa per verificare i luoghi dov’è maggiore la possiibilità di essere esposti al Covid
Ristoranti, bar, caffè e spazi affollati rientrano tra i luoghi in cui il rischio di contagio risulta più elevato. A sottolinearlo uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, condotto dagli esperti della Stanford University e della Northwestern University, che hanno analizzato la mobilità e una serie di informazioni demografiche, epidemiologiche e reddituali di diversi quartieri statunitensi per ricavare statistiche relative alle possibilità di contagio, evidenziando anche le disparità nel rischio di infezione in base allo stato socioeconomico degli utenti.
Mappati i movimenti di 98 milioni di persone
“La riapertura di luoghi come ristoranti, centri fitness, caffè e hotel – commenta Jure Leskovec della Stanford University – comporta un rischio più elevato di trasmissione di SARS-CoV-2. La riduzione dell’occupazione in questi luoghi potrebbe contribuire a un calo significativo delle infezioni previste”.
Il team ha utilizzato i dati raccolti tra il 1 marzo e il 2 maggio 2020 grazie ai telefoni cellulari, per mappare i movimenti di 98 milioni di persone provenienti da diversi quartieri locali statunitensi. “Abbiamo costruito un modello informatico – continua l’autore – per analizzare il modo in cui persone di diversa estrazione demografica e di quartieri differenti visitino vari tipi di luoghi più o meno affollati. Sulla base di tutto ciò, abbiamo potuto prevedere la probabilità di nuove infezioni in un dato momento, luogo o tempo”.
L’analisi considera dati demografici, stime epidemiologiche e informazioni anonime sulla posizione dei cellulari e sembra confermare che la maggior parte delle trasmissioni di COVID-19 avvengano in luoghi molto affollati, come ristoranti a servizio completo, centri fitness, bar e caffè, dove le persone rimangono in spazi ristretti per archi di tempo considerevoli.
Chicago, New York e San Francisco
“Combinando questi dati con un modello di trasmissione del virus – spiega l’esperto – abbiamo identificato le potenziali sedi e le popolazioni ad alto rischio. Le nostre simulazioni hanno previsto con precisione il conteggio giornaliero confermato dei casi in dieci delle più grandi aree metropolitane, tra cui Chicago, New York e San Francisco”. I dati dettagliati sulla mobilità hanno permesso la modellazione del numero di infezioni verificate a livello orario in circa 553mila località distinte e raggruppate in 20 categorie, chiamate ‘punti di interesse’, che le persone tendevano a visitare regolarmente.
“Secondo i nostri risultati – riporta lo scienziato – nell’area metropolitana di Chicago il 10 percento dei punti di interesse potrebbe essere collegato all’85 percento delle nuove infezioni registrate. Le fasce di popolazione con redditi più bassi, inoltre, non avendo avuto modo di ridurre drasticamente la mobilità, risultano a maggior rischio di contrarre l’infezione, anche perché tendevano a visitare luoghi più affollati”. Gli autori affermano che ad esempio i negozi di alimentari frequentati dalle fasce meno abbienti tendevano ad essere mediamente più rischiosi dal punto di vista della possibilità di assembramenti.
“Questa capacità predittiva – precisa David Grusky, della Stanford’s School of Humanities and Sciences e coautore dell’articolo – è particolarmente utile, perché fornisce nuove informazioni utili sui fattori alla base dei tassi di infezione sproporzionati, che sembrano collegati alla provenienza etnica e alle condizioni reddituali delle persone”. L’esperto aggiunge che in passato si riteneva che le disuguaglianze relative ai tassi di infezione dipendessero dalla possibilità di accesso all’assistenza sanitaria, ma i modelli di mobilità potrebbero superare questo limite e aiutare gli scienziati a comprendere meglio le ragioni di tali squilibri.
Un modello matematico per decidere
“Abbiamo la responsabilità di pensare a una strategia di riapertura – commenta Leskovec – che possa ridurre le disparità che le pratiche correnti stanno alimentando. Il nostro modello dimostra che le politiche di permanenza in casa hanno rallentato il tasso di infezione”.
I ricercatori sottolineano che è impossibile conoscere il luogo e il momento esatto in cui una persona contagiosa trasmetterà l’infezione ad altri individui, ma il modello consente di utilizzare equazioni matematiche per superare alcuni dei limiti esistenti, risolvendo variabili e perfezionando il sistema fino a renderlo in grado di determinare il tasso di emissione del virus in ogni città considerata. I risultati sono stati poi verificati nella seconda fase di approccio, durante la quale il modello è stato combinato con i dati demografici raccolti da un database di 57mila gruppi di censimento.
Il gruppo di ricerca sta ora lavorando per ridimensionare il modello, già disponibile al pubblico, in uno strumento di semplice utilizzo per i politici e per i decisori e i funzionari della sanità pubblica. “Abbiamo anche previsto l’impatto di diverse strategie di approccio – conclude Serina Yongchen Chang, studentessa di dottorato presso la Stanford University e altra firma dell’articolo – ad esempio, limitare l’occupazione di una sede al 20 percento della capacità massima potrebbe ridurre le nuove infezioni di oltre l’80 percento, ma allo stesso tempo porterebbe a un calo del solo 42 percento del numero complessivo di visite presso il locale”.
(Agi)