Un libro di Davide Lajolo di tanto tempo fa si intitolava “Il vizio assurdo” e si riferiva al suicidio di Cesare Pavese. Difficile passare dalla letteratura di allora alla politica di oggi. Eppure c’è un vizio assurdo anche nella politica italiana. Esso prende il nome di unità nazionale. La fuorviante metafora della guerra viene chiamata alle armi in suo sostegno e tutta la retorica che la accompagna ha come unico scopo quello di dar vita a un governo di larghe intese, neanche parente della Grosse Kolation tedesca, che pure non è stata un bel vedere. C’è una grande tempesta sociale ed economica in atto, e ancor più in quello che si prospetta. Meglio allora affrontarla stando tutti insieme al governo, per essere coperti, per coprire l’establishment e per evitare il crollo dell’economia.
Se destra e sinistra sono categorie già poco frequentate dalla politica in condizioni normali, figurarsi in condizioni di emergenza.
Sembra questo essere il non detto che alimenta la proposta e il tempo del virus è per definizione il tempo dell’emergenza. Del resto la proposta si fa sempre più insistente ogni giorno che passa, malgrado siano evidenti gli ostacoli che essa incontrerebbe nella realtà e che la renderebbero di difficilissima attuazione. Però intanto essa lavora a protrarre il galleggiamento della politica sulla realtà, a lasciare che i processi economici facciano il loro corso, a impedire alla politica di rianimarsi anche ora di fronte alla crisi e alla gravità del disagio sociale. Perché per poterlo fare, essa dovrebbe proprio imboccare la strada opposta a quella proposta, cioè la strada della riapertura di una grande contesa politica sul futuro della società, uscita dalla pandemia, un futuro, la cui costruzione già si potrebbe intravedere in essa.
Si può parlare di un vizio assurdo della politica italiana perché ripetutamente, nella fase della sua decadenza, alla difficoltà di fronteggiare la crisi e di risolvere il problema del consenso popolare, essa ha ripetutamente cercato la via di fuga nell’unità nazionale. I sostenitori del governo di unità nazionale si rifanno solitamente a tre precedenti, che ne proverebbero la necessità e l’utilità nei periodi di crisi. Compito arduo. Il primo esempio spesso citato non lo fu affatto. Dopo la Liberazione, solo il Governo Parri raccolse tutte le principali forze del Paese, ma esso non fu una grande coalizione, piuttosto fu il governo dell’antifascismo, la cui breve vita terminò con la cacciata dei comunisti e dei socialisti dal governo. La ricostruzione avvenne poi con un’impronta politica molto marcata, con i governi centristi, con l’opposizione delle sinistre, in un gigantesco conflitto sociale che dovette fare i conti anche con una dura repressione poliziesca. Anche i due precedenti che possono essere legittimamente ricordati, dubito che possano giovare alla causa dei sostenitori dell’unità nazionale.
Uno, quello di Andreotti, nacque nel marzo 1978. Fu il governo di solidarietà nazionale,
costruito su un’asse tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista, nel tempo del terrorismo, governo che fu subito investito dal rapimento di Aldo Moro. Il suo bilancio economico-sociale si può ricavare dalla scelta di Berlinguer di porvi fine per poter riguadagnare al suo partito il ruolo di opposizione. Neppure può essere trascurato che, proprio su quella storia, si aprì una contraddizione profonda tra il Pci e una nuova generazione, con una rottura resa manifesta dai movimenti del 1977. L’altra è l’esperienza di governo del 2011. Dopo lo strangolamento, per mano dell’Europa dell’austerity, operato nei confronti della Grecia e del suo tentativo di riforma, si realizza in Italia un nuovo governo di unità nazionale: il Governo Monti. Sospesa la democrazia rappresentativa, col mancato ricorso alle elezioni, le principali forze politiche si affidano a un governo che si affida a sua volta al governo tecnocratico europeo e ne assume in toto le politiche di austerity.
Oggi, di fronte a una pandemia che ha dilatato tutte le ragioni della crisi del modello economico in cui siamo inseriti, e che ne ha aggravato le già intollerabili diseguaglianze, nessuno difende più quelle politiche e molti degli stessi sostenitori di allora hanno cambiato posizione e rileggono criticamente quelle scelte. Però allora quelle stesse passavano come necessarie, come obbligatorie, e i governi di unità nazionale ne erano i suoi primi custodi, che si legittimavano attraverso l’ampiezza stessa dell’alleanza politica che sosteneva il governo, rendendo così istituzionalmente irrilevanti le opposizioni e le critiche. Dunque, i precedenti invocati non testimoniano affatto di una buona relazione tra la necessità di affrontare la crisi e l’instaurazione di un governo di unità nazionale. Se guardiamo la storia del Paese, la realtà ha falsificato questa teoria. I governi di unità nazionale sono stati portatori di guai per il Paese, e in particolare per le sinistre del tempo.
Oggi la proposta si appoggia su un’analisi sociale del Paese poco convincente e su una negazione della natura politica e delle diverse conseguenze sociali che determinerebbe una scelta del governo piuttosto che un’altra, a partire già da come si combatte la pandemia.
Dicono i sostenitori dell’unità nazionale che la scelta è invocata proprio dalle caratteristiche di queste decisioni che riguardano la limitazione delle libertà individuali, l’arresto di attività economiche e la corresponsione di sostegni economici ai diversi soggetti. Ma dimenticano che tutte queste pesano già diversamente su soggetti sociali che dispongono di diverse protezioni e garanzie, che abitano e vivono in un ventaglio sociale che va dalla ricchezza alla povertà, dall’abbondanza alla privazione. Nella pretesa che vorrebbe queste politiche neutre, buone o cattive solo a seconda di chi lo decide (e qui starebbe la forza del governo d’unità nazionale), esce di scena l’essenziale.
L’essenziale è la sanità pubblica che è stata azzoppata dai processi di privatizzazione e da una cultura aziendalistica che ha fatto dell’ospedale una cattedrale nel deserto. Si è finiti così perché si è scelto politicamente di fare senza la prevenzione e senza la partecipazione. Ci metti una toppa per superare l’emergenza o avvii la riforma? Negli Usa su questo tema si è giocato e si gioca una parte dell’intera contesa presidenziale. Il governo di unità nazionale sarebbe fatto invece per sfuggire alla scelta. Ma si prenda un qualsiasi cambio della società, della vita delle persone, come delle organizzazioni, e si vedrà che adesso, proprio adesso, dentro l’emergenza, il compito di evitare il peggio e quello di prefigurare un diverso futuro stanno insieme, stanno già insieme, già ora prima della Next Generation Eu, figurarsi dentro di essa.
Non si può sostenere che la pandemia dilati i problemi della società che l’avevano preceduta e poi pensare di annegare il carattere apolitico, e quindi di parte, delle scelte nella presunta uniformità dell’unità nazionale, perché è lì che la politica e la democrazia reale compirebbero un altro passo sulla strada del loro annichilimento. Si è fatto riferimento alla sanità perché essa è la più invocata direttamente dalla crisi pandemica, ma non è un altro discorso quello che si può fare sulla scuola, sull’ambiente, quello a sua volta indissolubile sulla questione sociale, sul lavoro, sulla qualità delle relazioni umane, sulla povertà, sul carattere dell’innovazione. Si vorrebbero ascoltare le voci (diverse tra loro?) dei sostenitori dell’unità nazionale su chi sta oggi messo ai margini, fuori dal campo dei diritti proclamati, sui detenuti che si ammalano di Covid nelle carceri o sugli immigrati abbandonati nel Mediterraneo fino a dover raggiungere quella irrimediabile offesa all’umanità che è la morte in mare di un bambino o di una bambina. Quelle voci per adesso, quando sono simili, vengono in sostanziale difesa dell’esistenza e, quando sono diverse, indicano ai sostenitori della proposta un problema irrisolto.
Ma c’è nella pandemia un crinale decisivo, che pretende una scelta di campo, il contrario di una neutralità che sarebbe già complice dell’ingiustizia, è il crinale tra l’eguaglianza e la diseguaglianza. Si legge sul Corriere della sera con tutto rilievo “Le fasce povere e medie si stanno ulteriormente impoverendo. La floridità delle fasce più ricche cresce”. L’intera coesione sociale è minacciata e si è fatta esplosiva. La situazione era già intollerabile. Dal 2007 al 2018, la ricchezza media è diminuita, mentre quella del 10% degli italiani più ricchi è più che raddoppiata. Nel 2018 il patrimonio dei 21 italiani più ricchi era eguale al patrimonio complessivo del 20% meno abbiente della popolazione. La pandemia ha ulteriormente aggravato questa aberrante distribuzione del reddito e del patrimonio. Dunque, verrebbe da dire, la patrimoniale è diventata una scelta necessaria.
Scommettiamo che i sostenitori del governo di unità nazionale non sarebbero d’accordo o si dividerebbero, marginalizzando quelli che sosterrebbero la riforma? Basta inanellare questione su questione per trovare le ragioni della insostenibilità politica del governo di unità nazionale al fine della riforma sociale necessaria. Senza arrivare alla questione decisiva del modello economico-sociale, cioè della maturità del grande cambiamento, basterebbe partire dalla più antica ed elementare delle questioni, quella della distribuzione della ricchezza per inciampare su quella via senza poter proseguire. Le tasse, le imposte si rivelano oggi non solo un modo per affrontare gli impegni della spesa pubblica, ma una leva per combattere la diseguaglianza. Bisognerebbe allora intraprendere almeno il cammino opposto a quello perseguito dagli anni Ottanta, ricordando che allora esistevano imposte sui patrimoni, sugli utili con aliquote del 40-50% e che l’Irpef aveva più di 20 aliquote che andavano dal 10 fino al 72%.
Il fisco di fronte alla diseguaglianza e alla povertà, entrambe accresciute, dovrebbe riguadagnare il suo ruolo distributivo. O no? Cacciata dalla politica politicante, la storica discriminante tra destra e sinistra vive tumultuosamente nella società civile, nell’economia, e chiede su questa base di essere rielaborata, affinché la politica possa rinascere, riproponendo delle alternative su cui vive la democrazia e riaprendo una contesa senza la quale non c’è un futuro auspicabile. Il governo di unità nazionale, invece, si oppone a questa e nega quella, ma così si mantiene solo la politica in un ruolo di galleggiamento e al fondo servile.
(Il Riformista, Fausto Bertinotti)