26 Novembre, 2024
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Maledetta Livorno: aveva ragione Turati, non Gramsci

Il 21 gennaio del 1921, a Livorno, il Congresso del Partito Socialista si concluse con una scissione.

La frazione comunista, guidata da Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci, si staccò dal partito e fondò il Partito Comunista.

“E quando avrete fatto il Partito Comunista Italiano, quando avrete impiantato i Soviet in Italia, se vorrete fare qualcosa che sia rivoluzionaria per davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, perché siete onesti, a percorrere la via dei socialtraditori, e questo lo dovrete fare perché questo è il socialismo che è solo immortale, che è solo quello che veramente rimane di vitale in tutte queste nostre beghe e diatribe…”.

Filippo Turati, il leader della corrente di minoranza del PSI, sconfitto ma non domo ammoniva i compagni della corrente “comunista unitaria” nel tumultuoso Congresso del 1921,

e profetizzava che presto o tardi l’illusione di poter fare “come a Mosca” e trasferire la rivoluzione proletaria si sarebbe trasformata in una catastrofe proprio per coloro nel nome della quale essa si era compiuta, e che il Socialismo si sarebbe potuto inverare attraverso altre strade e altri mezzi. C’è dell’altro da considerare. Il Congresso si tiene nel momento del fascismo nascente. La strage di Palazzo d’Accursio del novembre 1920, a Bologna, rappresenta l’aurora dello squadrismo armato. Eppure, a Livorno, solo in pochi si avvedono del cambio di passo. Matteotti, Vacirca, Turati. La corrente comunista giudica il fenomeno passeggero, il singulto della borghesia, la dimostrazione della crisi irreversibile del capitalismo. Anche Gramsci la pensa così. Siamo all’esordio di una storia nuova, terribile, e solo un pugno di delegati, tutti riformisti, ne ha piena contezza. Superfluo ricordare chi avesse ragione.

Non fu una rottura ideologica, Turati continuava a professare e ad attuare una inclinazione marxista adattata ai tempi e alle condizioni del Paese ma assieme alla sua corrente “riformista” del PSI si differenziava nella valutazione dei processi che avrebbero condotto a maturazione la società socialista. E la sua fu una differenza radicale che condusse i riformisti, molto tardi nella Storia, ad avere ragione e gli scissionisti che generarono il Partito Comunista Italiano torto. Si contestavano tre punti essenziali: 1) l’uso della violenza 2) la dittatura del Proletariato 3) la coercizione del dissenso.

In sintesi “il culto della violenza” eretto a prassi e dottrina politica, cultura che si è tramandata a lungo nella storia della sinistra italiana che prese le mosse dalla scissione del Partito Socialista a Livorno. La vecchia mentalità insurrezionalista, blanquista, giacobina che si era riaccesa durante la Prima guerra mondiale e che fu indiretta causa della illusione rivoluzionaria che causò la prevedibile reazione. (Non sappiamo giudicare se la cosiddetta “rivoluzione italiana” degli anni Novanta abbia prodotto il medesimo effetto, vista l’insorgenza di una robusta destra reazionaria ai giorni nostri: però qualche sospetto ci è venuto). Turati non poté che ribadire a Livorno nel 1921 il valore del riformismo e del gradualismo come metodo, di fronte a un mito, quello della Rivoluzione russa, destinato prima o poi a svanire come tutte le illusioni, e le sue solenne considerazioni rimangono scolpite come una delle più grandi profezie della Storia politica italiana.

Le pagine della Storia devono essere rilette perché esse illuminino il futuro, d’altronde è cambiato il secolo, si è trasformata la politica e potremmo dichiarare definitivamente tramontata la stagione delle diatribe e delle divisioni nel campo della sinistra italiana. Tuttavia, se non fossero perdurati a lungo i miasmi della lunga stagione di divisione storica fra il socialismo democratico e il comunismo, in Italia si potrebbe affermare che da tempo la cosiddetta scissione di Livorno sta alle nostre spalle. La verità è che stanno alle nostre spalle le ragioni contemporanee che la produssero ma non le identità che da essa generarono quella scissione che fu un atto di nascita, quello del Comunismo italiano e la sua separazione dal Socialismo. E se lo strappo dal Comunismo mondiale, un minuto dopo e non un minuto prima che accadesse il drammatico decesso, vide la nascita di un’esperienza politica che ne cancellò le insegne, tuttavia non si sanò mai la frattura consumatasi all’interno del percorso materno che resta quello del Socialismo italiano.

Rifiutata l’ipotesi del “ritorno al futuro” ovvero del ricongiungimento formale e sostanziale nell’alveo del Socialismo italiano, ciò che fu generato attraverso il mancato superamento e revisionismo della scissione comunista di Livorno fu una perpetua partenogenesi di organizzazioni e movimenti politici senza definita identità e per giunta progressivamente annacquati nell’alleanza e fusione con gruppi e movimenti non consanguinei della storia del Movimento operaio e socialista. Ora la questione che si pone nella sinistra democratica, che si definisce “riformista” nel mondo moderno, riguarda ancora questioni di fondo, di metodo e di prassi nella lotta politica e di interpretazione dei modelli di società, a maggior ragione oggi che nella società globale aggredita dal medesimo incubo pandemico si stagliano all’orizzonte delle esperienze che riecheggiano le mitologie dei primi del secolo scorso.

Non è forse “comunista” la potenza che si è affacciata nel mondo con il suo dinamismo e approccio truffaldino, ovvero quel vero e proprio ircocervo ideologico che è rappresentato dalla sintesi cinese di un turbo-capitalismo liberista per giunta guidato dal partito unico e dal suo comitato centrale? E quale rapporto si intende instaurare con le nuove esperienze che non nascondono la propria identità “socialista”, che sono state decisive nella vittoria dei democratici americani, attardatisi negli anni a difendere fallimentari “terze vie” che avrebbero dovuto superare i modelli socialdemocratici e le virtù più che mai attuali della capacità dello stato di essere decisivo negli orientamenti economici, proprio in presenza di un’aggressiva e onnivora ondata capitalista?

Affrontiamo quindi l’occasione della celebrazione della nascita del PCI come un’occasione di riflessione politica e ideologica opportuna, nel rispetto e nella considerazione che si deve a una forza politica che è stata essenziale nell’affermazione dei valori nazionali e nella costruzione della Repubblica italiana, che è stata tanta parte della sinistra e che orienta ancora a un secolo di distanza una fetta consistente del suo popolo, dei lavoratori e delle giovani generazioni. La sua attualità, oggi come allora, sta nell’essere argine al populismo e ai nuovi autoritarismi, purché non ne assuma, come è accaduto in diverse fasi della politica del Paese, delle sembianze spurie.

Non diciamo che il vento del populismo che spazza l’Europa e le Americhe sia fascismo tour court. No. E però esso va combattuto con tenacia e determinazione correggendo anzitutto gli errori che anche la sinistra ha commesso al tramonto del secolo scorso. Pensiamo all’Italia. La vulgata che lo Stato fosse onnivoro non era una falsità, e però una cosa è limarne le unghie, altro è smantellare pezzi di sanità pubblica e svendere aziende di Stato in settori strategici come è stato fatto dalla Sinistra al Governo. Una cosa è tagliare sedi universitarie in eccesso, altro non scommettere fino in fondo su ricerca e istruzione. Una cosa infine è il rispetto della legalità, altro è l’esaltazione dell’arbitrio giudiziario senza garanzie per gli imputati e l’utilizzo sistematico delle vicende giudiziarie per annientare e umiliare l’avversario politico.

Quel che serve oggi, tanto più di fronte all’emergenza da pandemia, è uno Stato umanizzato, un canone sì riformista, dunque quanto mai rivoluzionario, che corregga le distorsioni della globalizzazione guidata da multinazionali e alta finanza, che restituisca all’Europa il ruolo che ebbe al tempo dei pionieri perchè possa inserirsi a pieno titolo nella competizione mondiale arrecandovi i valori del suo canone secolare: libertà, welfare, conoscenza, che, infine, si preoccupi di creare ricchezza senza dimenticare la massa crescente e disperata degli ultimi.

Padre di questa storia e di questo futuro è il Socialismo umanitario. Per questa ragione, da socialisti ribadiamo le attualità prevalenti del metodo riformista, e intendiamo continuare a riflettere assieme a tutti coloro che mantengono vivo l’ideale e l’obiettivo di una società più giusta, più libera, solidale e moderna e vogliono richiamarsi ai valori più alti di un Umanesimo socialista adatto ai nostri tempi di cui più che mai sentiamo il bisogno.

(Bobo Craxi e Riccardo Nencini, Il Riformista)

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