È passato mezzo secolo da quel 7 dicembre del 1968 quando Mario Capanna e i ragazzi del Movimento studentesco accolsero il pubblico della Prima della Scala con un fitto lancio di uova che fece scempio di pellicce, smoking e abiti da sera.
Una contestazione senza precedenti e per questo inaspettata che portò la protesta sulle copertine dei giornali di tutto il mondo.
Quei giovani non ce l’avevano con la Scala, ma con il «bel mondo» della Prima, con quella casta ante litteram fatta di vecchia borghesia milanese, nuovi ricchi del boom (i «cumenda» con la fabbrichetta) e potere politico. E le uova erano lo strumento per colpire, imbrattandoli, i simboli della ricchezza, per ribaltare il meccanismo dell’ostentazione: da motivo di vanto a motivo di vergogna.
Da allora non c’è stata Prima che non abbia avuto di contorno la sua piccola o grande contestazione. Contestazione che però non aveva più un bersaglio diretto, un valore simbolico immediato. Anche perché, con Paolo Grassi sovrintendente, la Scala si aprì al mondo del lavoro andando a cercare spettatori nelle fabbriche e negli uffici con la vendita di biglietti a prezzi contenuti. I manifestanti usavano e usano la Prima come un palcoscenico sul quale sono accesi i riflettori dell’opinione pubblica.
(milanocittastato)