Un’eccezione per una situazione eccezionale. Se si guarda da questa prospettiva, l’intesa per il riassetto proprietario dell’ex Ilva è una buona notizia. Se invece si pensa che questa operazione – per la quale lo Stato tornerà ad avere la maggioranza del grande gruppo siderurgico – rappresenti l’avvio di una nuova era di intervento pubblico generalizzato, di uno Stato tornato ‘imprenditore’, o quantomeno ‘salvatore’ di ultima istanza, allora potrebbe essere un cattivo auspicio.
Foriero di nuove emorragie di fondi pubblici a carico dei contribuenti (come già accade da tempo per l’Alitalia) di una gestione più politica che non manageriale delle crisi di mercato.
Non siamo pregiudizialmente contrari alla presenza statale in economia: d’altrocanto, da noi non mancano certo i grandi gruppi controllati direttamente dal Tesoro per quanto quotati in Borsa e gestiti secondo criteri privatistici. Il discrimine su cui giudicare l’opportunità della presenza dello Stato sta nel perché e nel per come il governo decide di intervenire direttamente. Il perché non può essere solo quello – pur nobile – di salvare dei posti di lavoro.
Giacché compito dello Stato non è quello della conservazione sempre e comunque dell’occupazione nelle aziende in difficoltà, ma di creare le condizioni affinché quei dipendenti siano supportati nell’immediato e possano ritrovare lavoro in un diverso contesto. E non è neppure quello di difendere sempre e comunque una presenza industriale, una quota di mercato. Se non quando questa sia realmente strategica per il sistema Paese, com’è in questo caso la produzione di acciaio di alta qualità assicurata dall’ex Ilva. Il vero criterio per giudicare il riassetto del gruppo siderurgico riguarda in realtà soprattutto il ‘come’ si caratterizzerà la presenza statale nel gruppo industriale.
Perché in questo specifico caso non c’è solo da dare continuità produttiva, salvaguardare l’occupazione e assicurare le forniture alle altre industrie del Paese, ma c’è soprattutto da garantire la salute di una popolazione e favorire la transizione dell’azienda verso una piena sostenibilità, tanto economica quanto ecologica. Questo è il compito più importante che giustifica e insieme impegna lo Stato a Taranto. Si dirà: ma per raggiungere questo obiettivo potevano bastare la guida manageriale dei soci privati, il potere di indirizzo della politica e il controllo da parte della magistratura. Certo, questi soggetti avrebbero dovuto assicurare tutto ciò, ma la realtà testimonia che non è accaduto: da 25 anni a questa parte. La storia di Taranto è, semmai, quella di un lungo, continuo tradimento.
Tradimento dello Stato che lasciò ai privati una situazione disastrosa anzitutto dal punto di vista ambientale. Tradimento di industriali italiani che non risanarono e coprirono le loro responsabilità. Tradimento di gruppi stranieri intervenuti evidentemente più per lucrare quote di mercato e giocare partite di potere su ‘braccia’ e territori italiani che per risanare e sviluppare l’azienda. Fino ai conflitti paralizzanti tra i poteri legislativo e giudiziario. Un disastro umano prima che economico, le cui vittime sono state migliaia di lavoratori e più ancora migliaia di cittadini del quartiere Tamburi ai quali è stato negato il diritto alla salute e che hanno pagato con malattie e morte l’irresponsabilità di altri.
Se l’ingresso del Tesoro attraverso Invitalia – prima col 50% e poi con la maggioranza del capitale dell’azienda – sarà una pura e semplice riedizione dell’’Acciaio di Stato’ del Novecento, quel tradimento si consumerà ancora, con l’aggravante di nuovi costi per la comunità. Se invece servirà a ristrutturare il gruppo secondo criteri di sostenibilità e salvaguardia della salute di tutti, si sarà scritta finalmente una pagina nuova. Anche di un’imprenditoria di mercato diversa, che può essere privata o statale o mista non importa, ma che trova la sua legittimazione prima nella pubblica responsabilità sociale che esprime.
(Avvenire)