L’attuale pandemia di Covid-19 ha mutato l’intero modo di vivere delle società umane. Non serve spiegarlo, è realtà quotidiana sotto gli occhi di tutti. A questo dato – lo dico da storico, non da profeta di sventura – occorre però aggiungerne un altro: i cambiamenti in corso non si sono ancora manifestati in tutta la loro ampiezza. Le ricadute economiche, a seguire sociali e infine politiche della pandemia diverranno più evidenti una volta terminata – si spera – l’urgenza medica.
È bene non farsi troppe illusioni. Fuori di noi, a volte anche in noi, domina l’idea – magari ‘dopo il vaccino’ – d’un pronto ritorno al ‘mondo di ieri’ e ai suoi stili, buoni o cattivi che fossero, in fondo noti e perciò rassicuranti. Eppure, anche se pochi lo dicono, il mondo di ieri resterà di ieri. E dato che ci troveremo presto tutti in quello di domani bisognerà attrezzarsi ad affrontare i nodi irrisolti che questo Paese si trascina dietro da trent’anni e più, e che la pandemia – in questo sì, apocalisse – ha portato al pettine. Tre in particolare paiono particolarmente importanti.
In primo luogo, oggi scontiamo una terribile assenza di progettualità politica. Non devono interessare le polemiche, specie in una condizione d’emergenza in cui tanto è difficile governare quanto è facile fare opposizione cavalcando rabbie prive di proposte. Ma, ciò detto, dietro alle pezze non si intravede una visione d’insieme, un orizzonte costruito – avrebbe detto Aldo Moro – con «l’intelligenza degli avvenimenti». E non si intravede perché, con rarissime eccezioni, non c’è una classe dirigente capace di indicarlo. La responsabilità, in fondo, è nostra: è dai tempi di Tangentopoli, quando si buttò via il bambino con l’acqua sporca, che non ne abbiamo formata una. E senza classe dirigente, si finisce là dove ha scritto Kierkegaard: «La nave è in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani». Riusciremo a invertire la direzione?
In secondo luogo – poiché prendersela con la politica è troppo semplice – la pandemia ha mostrato lo stato di salute, anzi, di malattia del nostro tessuto civile: vivo ma depauperato dei suoi corpi intermedi; generoso ma pure segnato da un individualismo radicale che non capisce né la differenza tra libertà e arbitrio né il significato della parola ‘responsabilità’. Ci rassegneremo a questa cultura – in fondo la stessa delle cicale – o riusciremo davvero a inventare nuovi tipi di comunità solidali?
Infine, la pandemia ha svelato il nostro modo di essere Chiesa. E ha sì mostrato germogli di novità – le preghiere e le liturgie familiari e la capacità della ‘Chiesa col grembiule’ di essere attraente più che le Messe in streaming – ma anche modelli ecclesiali che non reggono più. Ha sottolineato la crisi dei vecchi automatismi nella trasmissione della fede. E quando la nuova crisi economica post-Covid produrrà più poveri di quelli che già ci sono, quando i disoccupati busseranno alla porta delle parrocchie, che parola diremo loro? Gli parleremo dell’orario della Messa di mezzanotte? O sapremo ricordarci delle madri e dei padri? Di Dorothy Day, che negli Stati Uniti della Grande Crisi – con buona pace di Rod Dreher e del suo sciagurato volume ‘L’opzione Benedetto’ – s’inventò un’accoglienza davvero ‘benedettina’ per migliaia di disoccupati… O di Alberto Hurtado, il santo gesuita che nel Cile degli anni Quaranta del Novecento aprì una miriade di Hogar de Cristo, ambienti familiari per quanti non avevano più lavoro, né casa né famiglia.
(Avvenire)