Tra vaccini, Mes, zone gialle e arancioni, decreti ristori e dpcm, la vita dentro la bolla della pandemia è diventata per noi cittadini uno slalom tra incertezze sul futuro che ci attende, sofferenze e lutti, regole mutevoli e strette. Restiamo sospesi tra la fretta di uscirne e il realismo di un orizzonte che si è fatto corto. Ci siamo dovuti abituare, come a un abito di una taglia in meno che però è l’unico rimasto nel guardaroba.
Ma non ci piace, diventiamo insofferenti: e più passa il tempo della coabitazione con un inquilino infido, ingombrante e persino letale come il nuovo coronavirus, più ci scopriamo stanchi, adottando strategie di sopravvivenza che ci mostrano le nostre impensate capacità adattive ma che sanno anche di ripiegamento al ribasso, in attesa di tempi nuovi che verranno, sì, ma chissà quando. Ed è inevitabile chiedercelo: che cosa stiamo diventando? E cosa ci resterà dentro di queste paure profonde persino dei gesti più umani, di abbracciarci? In realtà, questa nuova parte di noi sembra rivelarci per contrasto non solo cosa ci manca, ma a cosa ambisce la nostra vita.
Per questo può far bene leggere, o rileggere, il discorso che l’arcivescovo di Milano Mario Delpini ha consegnato per sant’Ambrogio a una città che patisce sin dall’inizio questa crisi come uno sgambetto ingiusto alla sua corsa che pareva inarrestabile e che invece l’ha costretta a fare i conti con un’inattesa vulnerabilità. E all’imboscata del Covid reagisce sempre più infastidita e cupa, come fosse un’amplificazione in formato metropolitano delle nostre stesse percezioni. L’ha ascoltata per mesi, da vescovo, facendole la compagnia del pastore, anche nella malattia. E quando è arrivato il giorno del suo patrono, quello che durante l’anno serve a ricordare a tutti i cittadini quale anima li sostiene e li costituisce, ha detto a Milano che non si è mai smarrita perché è rimasta al suo posto. Tutti l’hanno fatto, tutti noi, anche se non siamo milanesi: su questa capacità di resistere e sperare nulla può prevalere. E se c’è un cambiamento che erediteremo dall’infinita emergenza (ormai più simile a una nuova normalità) sarà probabilmente per il meglio: avremo capito, milanesi e italiani, che a troppi incantamenti si voleva assoggettare la nostra umanità, fino a farle perdere di vista cosa la nutre davvero, e a cosa aspira sino a non sentirsi realizzata con nessuna contraffazione, prima tra tutte la pretesa di autosufficienza e di libertà illimitata.
«Nei mesi della pandemia – ha detto, tra molte altre cose vere, Delpini – è risultata evidente la parzialità di quelle analisi che conducevano alla tirannide universale dell’io. La vita ha potuto continuare perché la solidarietà si è rivelata più normale e abituale dell’egoismo, il senso del dovere si è rivelato più convincente del capriccio, la compassione si è rivelata più profondamente radicata dell’indifferenza». È tutto questo che mantiene in piedi una città e il Paese, ponendoli nelle condizioni di ritrovare proprio dentro il periodo forse più buio «l’attualità dell’auspicio, o del riconoscimento, di una visione comune», «una visione condivisa che non sia violenta come un’ideologia o precaria come un compromesso». In questi lunghi mesi di crescente affanno «abbiamo imparato che l’ideologia non va bene », che «l’individualismo non va bene», che «il neoliberismo non va bene», che il «populismo» è una illusoria e potenzialmente disastrosa «scorciatoia», e che – dice Delpini pensando alla sua Milano, ma ognuno provi a declinare queste parole alla propria realtà – «all’umanesimo lombardo questi princìpi rovinosi non sono congeniali». Li abbiamo importati, dice l’arcivescovo alla città, «ma senza mai sentirli veramente nostri».
Allo specchio allora continuiamo a riconoscere in noi ciò che ci tiene pieni di vita anche sotto la cenere di un tempo di precarietà. Tutto pare fermo ma tutto ancora si muove verso un nuovo approdo: non sappiamo ancora quale, eppure a ben vedere siamo parte del popolo di quelli che «non pretendono di fare notizia, non cercano occasioni per esibirsi in pubblico, non si aspettano riconoscimenti: stanno al proprio posto». In un altro suo discorso Delpini usò parole simili per definire la pasta di cui sono fatti i santi, anonimi e innumerevoli, luci impercettibili ma indispensabili dentro la città.
E allora, semplicemente, restiamo ciò che siamo, al nostro posto: questo è il modo migliore per vivere, e guarire noi stessi insieme a un mondo malato di sfiducia.
(Avvenire)