Un’oasi in mezzo al deserto, parola di don Giacomo Nieto
In qualsiasi momento buio della storia che si voglia ricordare o menzionare, l’animo delle persone è sempre stato accarezzato dalla mano invisibile di Dio, che ha trovato nella Chiesa una speranza alternativa alle funzioni politico-amministrative. Per questo, dopo aver ascoltato la voce del primo cittadino riguardo la situazione pandemica e le sue conseguenze nel comune di Canale Monterano, abbiamo chiesto al parroco quale fosse la prospettiva rilevata dalla posizione di chi, lontano dal pulpito a cui la sua figura sarebbe preposta, si è rimboccato le maniche della tonaca, diventando a Canale un altro faro di speranza nella notte di questo sconsiderato periodo. A tale proposito, in un pomeriggio di burrasca, ho incontrato don Giacomo Nieto, pastore della chiesa canalese; nella sala della casa parrocchiale dove mi ha ricevuto nel rispetto delle necessarie precauzioni, il caminetto era spento eppure ho percepito un pregnante calore di famiglia, che insieme all’ordinato buon gusto dell’arredamento, ha contribuito ad avvolgermi in una pacificante atmosfera permettendomi così di rivolgergli alcune domande che hanno favorito una piacevolissima conversazione
Come la pandemia ha cambiato il modo di essere chiesa, intesa come svolgimento delle liturgie, contatto con le persone e gestione dei gruppi parrocchiali?
«Bella domanda, è cambiata la struttura d’incontro, nel senso che si sono ridotte tantissimo le occasioni di ritrovarci come una volta. Abbiamo voluto moltiplicare le liturgie perché la gente potesse trovare il suo spazio sicuro per partecipare alla Santa Messa. Nonostante ci sia tanta paura, la Chiesa aiutata dai volontari, ha cercato di organizzare tutto secondo le regole, provvedendo a una frequente sanificazione degli ambienti, mantenendo un ricircolo di aria costante, evitando ogni contatto e assembramento negli spazi comuni. Insomma, non ci siamo fermati, nè durante il periodo del primo serrato lock down quando siamo comunque rimasti accanto ai fedeli celebrando le liturgie attraverso i canali social, né tutt’oggi, avendo riorganizzato le modalità di svolgimento del catechismo in cui sono state coinvolte anche le famiglie, dividendo i gruppi e garantendo le necessarie formule precauzionali. Nel male, insomma, abbiamo trovato risorse diverse per proseguire nei progetti parrocchiali».
Dal suo punto di vista, sono aumentate le persone in difficoltà nella nostra comunità?
«Sono aumentate tanto, tanto tanto. Parecchie persone, purtroppo, anche prima della pandemia lavoravano con discontinuità e spesso senza tutele, trovandosi oggi in profonda difficoltà economica. Molti non hanno ancora ricevuto la cassa integrazione e intere famiglie vanno avanti con la pensione del nonno o contributi di invalidità di qualche sfortunato congiunto. Prima della pandemia abbiamo iniziato a organizzare la Caritas con un numero di circa una cinquantina di assistiti; in questo momento stiamo assistendo 223 persone, quindi un centinaio di nuclei familiari. Da questo si prenda la misura della criticità del momento».
In che modo la parrocchia riesce a sostenere i più bisognosi?
«Noi viviamo della carità che si riesce a fare con il volontariato; ogni settimana consegniamo ad ogni famiglia circa 5 Kg di cibo, generi alimentari di base quali pomodoro, pasta, latte, riso, scatolame: ho sempre sostenuto che tutto questo non risolve la situazione ma in questo momento difficile può dare un respiro permettendo di convogliare i denari di quella spesa in altre necessità. Cerchiamo di sollevare, non di risolvere, in quanto risolvere è un qualcosa che sfugge alle nostre possibilità. Siamo un’oasi in mezzo al deserto, vedendo il nostro lavoro riconosciuto anche dall’Amministrazione comunale che dal canto suo si sta adoperando a sostegno dei più fragili».
Con quale stato d’animo va a letto ogni sera il pastore di una comunità ferita?
«Gli occhi del parroco si fanno improvvisamente lucidi e mi perdo in una lunga pausa di silenzio condividendo la sua commozione. “Impotenza”, è l’unica cosa che dice con voce rotta».
Crede che lo sconvolgimento di questo periodo cambierà per sempre il modo di fare chiesa?
«Deve cambiare, ma io penso che lo stava già facendo; con il pontificato di Papa Francesco è cambiato molto il senso di Chiesa, dobbiamo puntare alla consapevolezza della fraternità come un paradigma sociale e non come un’ideologia né politica né partitistica, né tantomeno utopica. Lo scopo è quello di formare una comunità simile a quella dei Discepoli di Gesù, che spogliandosi di ogni materialità, cercavano di vivere tutti in una dignità comune. Il male di oggi è che ci sono tantissime risorse ma sono distribuite male; chi vive in un benessere esagerato non riesce a vedere chi sopravvive con mille difficoltà. L’ultima enciclica del Santo Padre, ‘Fratelli tutti’, mette in evidenza proprio quello che io vedo tutti i giorni nella nostra piccola comunità, che ha sempre aiutato i più bisognosi, dai commercianti, alla farmacia, agli artigiani, cercando per quanto possibile di non lasciare indietro nessuno. Quella che ho deciso di servire non è e non sarà mai una Chiesa che attende in sacrestia l’arrivo dei fedeli; deve essere una chiesa in uscita, capace di stare in piazza e in grado di mettersi in gioco. Una chiesa che fa onore al suo nome ‘Ecclesia’[ κοινός ,(Koinos), casa], far sentire ognuno a casa».
Infine, come sarà il prossimo Natale e quale sarà il messaggio che porterà con sé quest’anno?
«Torno alla questione della fraternità. Mi sembra che il Natale sia toccare con mano la povertà e in un mondo dove abbiamo ucciso il pensiero del sacrificio, ci porterà a pensare quanto sia importante tornare alle cose fondamentali ed essenziali che abbiamo perso, ritrovare la vera grandezza non per quello che si ha ma per quello che si è. Credo che questa pandemia ci abbia insegnato che di fronte alla fragilità umana nessun bene materiale ha un senso e un’utilità. Siamo invitati a tornare alla responsabilità, alla consapevolezza di chi siamo, e da questa prendere forza. Se tutti uniamo le nostre forze, con le risorse di ognuno possiamo riuscire ad avere una giustizia sociale molto più concreta. Gesù nasce povero e tutta la sua vita è un messaggio di speranza in un futuro più giusto: questo è il messaggio essenziale del Natale e mai come ora, mettersi al servizio degli altri può onorarne la ricorrenza».
Non ha mai detto “io” Don Giacomo, configurando così l’umiltà di una missione con cui si incarna il silenzioso progetto di Dio.