22 Novembre, 2024
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Madre morta perché bloccata nel campo rom di Scampia: “Giustizia per Anna…

…appello contro ogni forma di apartheid”

Nel campo comunale di Napoli sulla Circumvallazione esterna di Secondigliano, dove risiedono ca. 400 persone della comunità rom, è stata istituita dalla Regione Campania la zona rossa dal 3 dicembre al 13 prorogata poi fino al 19 dicembre dopo aver riscontrato un focolaio di Covid-19. Si attende nelle prossime ore una nuova ordinanza.

Il 9 dicembre Anna, una donna di 32 anni residente nel campo, muore in seguito ad un parto prematuro, per cause che devono ancora essere accertate. Tornata a casa da un ospedale di Acerra, in cui la bambina resta per il momento, accusa per giorni dolori molto forti, per giorni chiede aiuto ma non succede nulla. Decide di farsi portare al pronto soccorso dai suoi familiari, ma l’esercito e le forze dell’ordine a presidio della zona rossa le impediscono di uscire di casa, nonostante nell’ordinanza sia scritto esplicitamente “è fatto obbligo di isolamento domiciliare, con divieto di allontanamento dalle proprie abitazioni, fatte salve esigenze sanitarie o connesse all’acquisizione di generi di prima necessità”. Viene chiamata un’ambulanza che arriva dopo un’ora, nel frattempo lei è già svenuta, viene portata in un presidio sanitario e poi al Cardarelli ma non c’è niente da fare, la donna muore. Sei figli restano orfani di madre. È importante fare anche luce sullo scenario all’interno del quale questa storia si è svolta.

Chi rom..e chi no con Unione delle Comunità Romanes in Italia (Ucri) ha lanciato un appello a cui hanno aderito decine di associazioni rom e non solo in tutta Italia.

“È importante fare anche luce sullo scenario all’interno del quale questa storia si è svolta. Il campo comunale in via Circumvallazione esterna a Napoli, dietro il carcere di Secondigliano è il primo campo ufficiale comunale nella storia di Napoli, costruito nel 1999 e inaugurato nel 2000 come soluzione abitativa per le comunità rom che vivevano già a Scampia da almeno un decennio, arrivate durante le guerre balcaniche ma in alcuni casi anche da prima, già dagli anni ’70. È situato su una strada a scorrimento veloce, con vista sul carcere, lontano dai centri abitati, lontano dal resto della popolazione e dalla sua vista, lontano da ogni accesso ai servizi, ai negozi, privo di collegamento con i mezzi pubblici”, è scritto nell’appello.

“Le famiglie sono state sistemate all’interno di una struttura con rigidi moduli abitativi, con la totale assenza di spazi verdi e di spazi liberi a disposizione. Nel campo è operativo un presidio fisso di vigilanza sociale, la manutenzione è affidata al comune con costi altissimi per le casse comunali ma anche con l’impossibilità di essere autonomi nella risoluzione dei problemi. Inutile sottolineare la presenza di una discarica fissa in particolare dovuta alla discontinuità dei prelievi e allo sversamento di rifiuti illegali, fatto soprattutto da cittadini italiani non rom che vivono altrove. Il campo comunale dietro il carcere di Secondigliano rispecchia in pieno i criteri con cui a partire dagli anni ’80 l’Italia affronta la questione abitativa delle popolazioni rom e sinti che, con tutte le varie e diverse specificità, provenienze, archi temporali più o meno secolari si trovano in Italia”, prosegue la nota.

La politica dei “campi nomadi”, con la nascita di ghetti monoetnici lontani anni luce dalla vita delle città, soprattutto nelle grandi città come Napoli, Roma, Milano e Torino, è la risposta italiana alla esigenza di decine di migliaia di persone di vivere dignitosamente nel paese in cui hanno scelto di vivere. Il campo, che nasce come risposta “emergenziale” ad una situazione confusa diventa la soluzione abitativa definitiva. “L’isolamento del campo – continuano Chi rom e chi no e Ucri – e la difficoltà oggettiva a entrare in relazione con il mondo esterno a causa di una distanza prima di tutto fisica oltre che mentale, per non parlare del fallimento di un sistema scolastico per almeno due generazioni di bambine e bambini rom, ha provocato per i suoi abitanti sia una diffidenza e una chiusura che un atteggiamento in cui le forme di assistenzialismo con i gagiò sono le uniche relazioni possibili. A causa della sistematica esclusione dai circuiti lavorativi e sociali e in generale delle discriminazioni subite dai rom, spesso vivere in un campo diventa una scelta obbligata e in qualche caso l’unica scelta possibile”.

La politica dei campi continua nella città metropolitana di Napoli. Nel 2017 un nuovo campo comunale, che corrisponde esattamente agli stessi criteri di quelli del passato, è stato costruito dietro il cimitero di Poggioreale per sistemare i duecentocinquanta rom romeni sgomberati dal grande campo abusivo di Gianturco. Nonostante i tavoli, gli esperti, le formazioni, le lotte, le manifestazioni, le denunce e anche le condanne, il nuovo campo è nato già vecchio e prefigura generazioni future di persone che saranno segnate per sempre da una infanzia trascorsa tra i moduli di un container, quando questo si sarebbe potuto evitare. Riteniamo che la discriminazione risieda a monte nelle politiche istituzionali sociali e abitative per le comunità rom e che il destino tragico di Anna sia stato segnato dal fatto di essere rom e di vivere in un campo in cui di per sé vige uno stato di eccezione che con la pandemia si è meritato di essere sorvegliato speciale.

“Attualmente – spiegano le associazioni – la situazione abitativa delle comunità rom a Napoli è la seguente: per quanto riguarda le strutture comunali, il campo sulla Circumvallazione di Secondigliano e il campo di Poggioreale ospitano rispettivamente ca. 400 e ca. 250 persone, il centro di accoglienza ex Scuola Deledda a Soccavo con ca. 120 persone. Per quanto riguarda gli insediamenti non autorizzati: Scampia con ca. 400 persone, Barra – Santa Maria del Pozzo con ca. 350 persone, Gianturco con ca. 250. Circa duemila persone per le quali non si riescono a pianificare politiche abitative e sociali realmente inclusivi e in linea con i principi europei e i diritti costituzionali. Riteniamo inaccettabile che in Italia, a Napoli, nel 2020, con i molti fondi europei a disposizione, in seguito a condanne ricevute dalla stessa Unione Europea per atti discriminatori nei confronti delle comunità rom, permangano ancora condizioni socio-abitative che di fatto creano esclusione sociale e criminalizzano automaticamente interi pezzi di società che vivono ai margini dei margini delle nostre città”.

Le richieste

Come rete nazionale di cittadini rom e italiani insieme, chiedono alla Regione Campania e al Comune di Napoli e agli enti e istituzioni nazionali competenti di intervenire su questi punti: “rimettere con urgenza al centro del dibattito politico in particolare della città metropolitana di Napoli la questione delle politiche abitative per le comunità rom che sperano e sognano di avere un futuro più dignitoso per i propri figli, costretti ad una vita di emarginazione e di esclusione sociale vittime di una incapacità amministrativa e di un vero e proprio razzismo istituzionale. Non operare nessuna forma di sgombero forzato o indotto giustificato da misure di necessità ed urgenza – come già purtroppo avvenuto in passato- senza la preventiva costruzione di alternative dignitose; formulare un piano programmatico di azione politica e sociale che contempli lo sviluppo parallelo di un piano di azione sugli altri 4 assi individuati dalla Strategia nazionale: lavoro; istruzione; salute oltre che abitare; affrontare la questione legale come una priorità di emancipazione per le comunità rom; fare giustizia per Anna e seguire il caso della bambina affinché possa essere affidata, dando priorità come prescrive la legge alla famiglia di origine; – rispettare i diritti costituzionali sanciti per legge”.

Infine le associazioni chiedono l’istituzione di un tavolo che la Regione Campania “non ha mai ritenuto prioritario istituire, un adeguato studio di modelli socio-abitativi che garantiscano uguaglianza e giustizia sociale per tutte e tutti perché il superamento dei campi avvenga all’interno dei piani di sviluppo cittadino, per la costruzione di un nuovo approccio culturale, politico e metodologico alle tematiche relative la popolazione romanì”.

(Il Riformista)

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