23 Novembre, 2024
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Il racconto del comandante del peschereccio: “Così ci hanno sequestrato”

Pietro Marrone ha raccontato ai cronisti il diario dei 108 giorni di prigionia a Bengasi

“Piu volte ci hanno detto che stavano per liberarci, ma poi ci trasferivano in un altro carcere”. Lo ha detto il comandante del peschereccio Medinea, Pietro Marrone, all’uscita dalla caserma dei carabinieri di Mazara del Vallo, al termine dell’interrogatorio condotto dai militari del Ros, su delega dei pm della Procura di Roma. Il capitano dell’imbarcazione ha raccontato ai cronisti il diario dei 108 giorni di prigionia a Bengasi, sotto il controllo delle milizie fedeli al generale Khalifa Haftar.

“Ci sballottavano a destra e sinistra e temevamo che volessero farla finita“, ma non abbiamo mai subito “violenze fisiche, ci umiliavano, ci gridavano in faccia, a volte ci mettevano spalle a muro”, racconta. Sull’ipotesi dello ‘scambio di prigionierì, il comandante Marrone ha detto che “avevamo capito qualcosa sullo scambio di detenuti, ma loro non ci dicevano niente, ci facevano sempre segnali dicendo che dipendeva da persone superiori a loro, poi ci hanno liberato senza dirci perche'”.

Nel pomeriggio i carabinieri del Ros hanno ascoltato altri tre pescatori, ma gli interrogatori proseguiranno domani e martedì. Riavvolgendo i ricordi, il comandante Marrone ha ricostruito il momento del sequestro dei due pescherecci, avvenuto la sera del primo settembre a 38 miglia dalle coste di Bengasi: “Ci hanno messo a bordo della motovedetta e poi ci hanno tolto dai pescherecci l’indomani mattina. Noi ci siamo fermati subito – ha aggiunto – sparavano in aria e quando hanno chiesto al comandante di scendere, sono sceso. I primi tre, quattro giorni siamo stati al ministero e poi ci hanno spostato in quattro carceri differenti. Noi pensavamo che fosse un sequestro normale per le acque internazionali, poi abbiamo visto che la cosa si faceva sempre piu lunga e sembrava sempre piu politica“.

Durante l’intera prigionia però i 18 pescatori sarebbero rimasti a secco di informazioni. “Ci trovavamo soli, senza notizie, parlavano tutti in arabo e alcune cose le capivamo dai tunisini. Eravamo disperati perche non sapevamo niente, pensavamo di non arrivare entro Natale. Dopo la telefonata dell’11 novembre (l’unica concessa dalla Farnesina ndr) pensavamo ci liberassero, invece ci hanno portato di nuovo in carcere. Non ci dicevano niente delle cose che facevano qui i nostri familiari – ha concluso, riferendosi alle manifestazioni organizzate – prima ci dicevano che dopo 10 giorni saremmo stati liberi, ma poi ci hanno rinchiuso di nuovo in una cella al buio”.

(Agi)

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