23 Dicembre, 2024
spot_imgspot_img

“Il mio Natale in quarantena, chiusa in camera e con i miei figli oltre la porta”

La testimonianza di Valeria Teodonio, giornalista del gruppo Gedi, dalla scoperta della positività al cenone consumato in solitaria, con la famiglia nella stanza accanto

Mi sono ammalata un venerdì, a Roma. “Il tampone è positivo – mi dicono in farmacia – Vada subito a casa, non prenda mezzi pubblici”. Così faccio. “Ti devi isolare”, ordina il medico di famiglia. Eseguo. Mi chiudo in camera, i miei familiari (che sono negativi) non possono assolutamente avere contatti con me. Perfetto. Tutto chiaro. Ma le certezze finiscono qui.

Il dilemma che sorge subito è questo: per quanto tempo sarò contagiosa? Nessuno dei miei “medici di fiducia” mi sa rispondere. “Il protocollo dice che bisogna aspettare che il tampone sia negativo. Oppure 21 giorni dal primo tampone se sei ancora positivo”. Ho capito, ma il virus per quanti giorni resta attivo nel mio corpo? Cioè, non abbraccio i bambini da dieci giorni ed è Natale. Siamo sicuri che non posso vederli? Chiedo mentre faccio avanti e indietro nella camera. Secondo una ricerca pubblicata su Lancet (che ha analizzato ben 79 studi) dopo il nono giorno il virus è ormai inattivo. Non si replica. In pratica, non si può trasmettere. Contatto una dottoressa che lavora per l’Organizzazione mondiale della Sanità. Mi conferma che dopo 10 giorni non sono più contagiosa, anche se il tampone dovesse essere ancora positivo. Ma i dubbi restano e chiedo comunque ai “miei medici” di cui sopra (amici-dottori preparatissimi che in passato mi hanno anche salvato la vita). Le risposte sono queste:
1. “La medicina non è una scienza esatta”
2. “Sappiamo solo che il protocollo dice che”
3. “La verità è che nessuno ci capisce niente”

È così, con il Covid le certezze sono pochissime. È una malattia nuova, nessuno vuole o può prendersi responsabilità. Fino a quando il tampone non risulta negativo, o se non sono passate almeno tre settimane, non puoi avvicinarti a nessuno. Anche se non hai sintomi. “Il protocollo dice questo”. E punto.

Il mio cenone di Natale dunque sarà in camera, da sola. E poco male. Ma i bambini scarteranno i regali lontano da me. E questo fa un po’ più male. Insomma, giorno dopo giorno, mi accorgo che il Covid porta con sé un’incertezza che avvolge, a cascata, un po’ tutto.

“Io sono negativo – spiega mio marito in ufficio – posso rientrare dopo la quarantena?”. “Assolutamente no, serve il tampone negativo di sua moglie”, rispondono. Ma poi il contrordine: “Anzi, forse sì…”. Il tampone dei miei figli è negativo, ma hanno comunque fatto la quarantena. Per tornare a scuola devono avere un altro tampone negativo. Oppure aspettare 14 giorni senza aver avuto sintomi. Ma se ci sono le vacanze di Natale di mezzo devono comunque rifare il tampone. Perché? Non si sa. O almeno la pediatra non me lo sa spiegare.

Anche mio padre è positivo. Ha 71 anni ed è solo in casa. Per fortuna senza grossi sintomi da Covid. Ma ha bisogno di una visita specialistica urgente, per un problema non legato al virus. Dalla Asl ci dicono che esiste un servizio di assistenza domiciliare. “Ma come, non lo sapete? Basta farne richiesta al medico curante”. Essendo tutti in quarantena, ci attacchiamo al telefono: scateniamo amici e parenti per fare moduli e incartamenti e portarli dall’altra parte della città sfidando la tangenziale sotto Natale. Finalmente la pratica giunge nell’ufficio preposto, dove però rispondono così: “Ma guardate che per quel tipo di visite il servizio non è previsto”.

(La Repubblica)

Ultimi articoli